domenica 20 giugno 2010

Intervista a Vittorio Foa

Intervista a Vittorio Foa pubblicata su www.unacitta.it, 

Vittorio Foa è uno dei padri della repubblica. Dicevi che volevi sottoporci un problema…

Io volevo sottoporvi un problema che mi intriga al termine della mia vita. Ho un ricordo abbastanza preciso di un’esperienza nella quale ogni personaggio, ogni attore, riusciva in qualche modo a sdoppiarsi. Da un lato a lottare per le proprie idee, dall’altro, contemporaneamente, quasi cambiando mente, a ricercare le regole. Si riusciva in qualche modo a governare il proprio tempo in modo diverso. Si agiva in termini immediati, cioè, secondo la convenienza che si presentava, ma nello stesso tempo si diventava un’altra persona per discutere delle regole di convivenza. Il discorso della convivenza appariva come distinto dal discorso immediato della convenienza e si riusciva ad avere i due momenti insieme. Sulla capacità di governare il proprio tempo in modo diverso, soprattutto per quello che riguarda il futuro, mi è parso, riandando ad alcuni episodi del passato, che ci siano state due esperienze molto positive.

Ovviamente stai parlando anche dell’attualità politica…

..... Io questa domanda me la pongo continuamente: passato Berlusconi cosa rimarrà in piedi del berlusconismo? La mia risposta è questa: il fatto che tutto è ridotto al presente. Usando una parola certamente inadeguata, è il “presentismo”, cioè l’incapacità di spostare la propria percezione del tempo nel futuro, e anche nel passato, nei ricordi, fuori dall’immediatezza del presente. Tutto interessa in quanto è presente oggi, di quello che ci sarà non ci poniamo il problema, quello che c’è stato si ricorda, ma in modo, e questo lo potremmo vedere poi, semplificato e, secondo me, anche improprio o inadeguato. Ovviamente la percezione del tempo riguardo al futuro presenta delle caratteristiche diverse dalla percezione del tempo riguardo al passato, ma entrambe le percezioni sono accomunate da una semplificazione, un’immediatezza finalizzate esclusivamente al presente.
Questo mi sembra molto grave e mi sembra che questo aspetto del berlusconismo ci riguardi un po’ tutti. Nell’opinione generale è difficile pensare al tempo come a una cosa che cambia, uno pensa solo alle cose che ci sono subito. E mi domando molte volte in che misura si può proporre non soltanto di ripensare il passato in modo meno schematico e semplificato, ma soprattutto di pensare al futuro in modo complicato, per esempio come solidarietà, o anche solo, in negativo, come riduzione dell’oppressione e della coercizione. Ecco, questo è più difficile.

Dicevi che stavi ripensando a due esperienze del passato…

L’esperienza positiva che io ricordo, da questo punto di vista, e che che mi è parsa, ma può anche darsi che mi sbagli, molto convincente è stata, in primo luogo, l’assemblea costituente. Nell’assemblea costituente noi passavamo metà della giornata a discutere di politica, e anche se l’assemblea non aveva alcun potere politico, era l’esecutivo a decidere tutto, noi, appunto, cercavamo di contrastare la politica dell’esecutivo nella Camera. Questo la mattina, attraverso scontri violentissimi, con lacerazioni anche profonde tra uomini e uomini. Al pomeriggio si discuteva delle regole, cioè della costituzione, e tutto cambiava. La testa di tutti noi diventava un’altra cosa. Noi pensavamo ad altro e il risultato è stato poi che la costituzione fu approvata a grande maggioranza da gente che al mattino, invece, discuteva animatamente e, spesso, fuori di sé dalla rabbia, di altre cose.

L’altro momento?

....subito dopo la caduta della dittatura mussoliniana. Fu allora che si determinò una politica assurda di gestione dell’Italia fatta di incertezze, di fughe di fronte ai tedeschi, di fughe di fronte agli alleati e fu allora che i partiti, che pure la pensavano in modo profondamente diverso, si ritrovarono all’improvviso a doversi far carico del futuro. Riuniti nei comitati regionali e poi nel comitato dell’Alta Italia, ci trovavamo a discutere del futuro nel modo più franco, più sereno. E molte cose furono allora risolte proprio in questo modo, senza, cioè, cancellare le differenze, ma pensando alle differenze e allo stesso tempo al loro superamento nella ricerca di regole.
Poi potremmo discutere a lungo sul passato, e lì ci sarebbero moltissime cose da dire sulla semplificazione, ma ciò che mi interessa di più è la possibilità di spiegare a un giovane che si può parlare del futuro anche se lo so, l’incertezza è profonda, ci sono mille ragioni che rendono difficile pensare al futuro. Però si può fare o no?
Ecco, se si può fare, è solo educando la propria testa a pensare a qualcos’altro che non sia la risposta immediata al presente. ...
.......Insomma, mi domando: è possibile sdoppiare in qualche modo se stessi? A me pare di sì. Che non vuol dire solo, così come io penso succeda, avere una pluralità di identità: io sono italiano e piemontese, ebreo ed europeo e tante altre cose ancora, ma posso anche essere uno che pensa a dei suoi interessi immediati, dell’oggi, e contemporaneamente un altro che sta pensando altre cose per il domani. Non so se ho reso l’idea… Poi può darsi che io mi inganni sul mio stesso passato, però la mia impressione è che questa possibilità di riuscire ad essere varie cose, in certi momenti può diventare una risorsa straordinaria.

Quindi, mi sembra di dedurre, nella politica attuale senti che questo aspetto è molto carente...

Lo sento moltissimo, moltissimo. In tutti i campi questo elemento si affaccia adesso profondamente: non tanto il problema del “giusto o sbagliato?”, quanto quello del “cosa conviene?”.
Faccio un esempio: giorni fa una storica italiana, Anna Bravo, ha pubblicato un articolo sul “meno peggio”, dove ha affrontato con molta delicatezza alcuni temi come quello dell’attentato di Via Rasella e della rappresaglia che ne seguì. Lei sosteneva la tesi che la soluzione di ogni problema è nel meno peggio, nell’adottare le soluzioni che poi comportano meno pericoli. C’è stata una risposta indiretta, anch’essa molto delicata, di Zagrebelsky, che ha scritto: “Sì, è giusto, è molto interessante questa tesi, però state molto attenti perché nella tesi del meno peggio vi è un grande pericolo, il pericolo cioè di giustificare anche le posizioni più reazionarie. Si può dire, va beh, c’era Hitler, ma peggio di lui c’era Stalin”.

C’è sempre un peggio…

Quindi il problema non è tanto del meno peggio, quanto del meglio. Bisogna in ogni situazione verificare quale sia la soluzione migliore.....

.......Penso che sarebbe molto importante che liquidassimo l’alternativa pacifismo-bellicismo affermando una cultura della non-violenza nella sua articolazione non soltanto sociale, e politica, ma anche “privata”, non soltanto come atto materiale, ma anche morale. Se la cultura della non-violenza diventa un fatto generale, condiviso, assorbe dentro di sé vecchie alternative del tutto inutili. E mi sembra che Bertinotti abbia fatto un passo importante in questo senso.....
......... forse queste cose sono possibili, però per farle ci vuole qualcos’altro. Bisogna cambiare la nostra testa, e pensare che il berlusconismo è una fase dentro la quale ci sono loro, ma ci siamo anche noi, totalmente. E possiamo cominciare a lavorare per gli altri soltanto se lavoriamo su di noi. Sennò non serve a niente. Lavorare solo per cambiare gli altri non serve assolutamente a niente. Questo è vero in generale. Io questo l’ho sempre pensato: se uno vuol cambiare gli altri deve per prima cosa cambiare se stesso.
Non so, pensate siano argomenti che possono essere interessanti?

Eccome. Dicevi della semplificazione del passato…

Già, la semplificazione del passato. Cosa vuol dire semplificare il passato? Scegliere cioè la ricordanza che ti conviene e non prendere mai in esame il contesto, il contesto reale e quello infinito delle possibilità che c’erano di trovare soluzioni diverse. Si prende dal passato solo quello che conviene. Questa è, a mio giudizio, una delle cose più pericolose, più dannose proprio per il nostro futuro. Solo nel riconoscimento del contesto, e quindi nell’insieme di valutazioni di quello che è successo, noi riusciamo a capire in che cosa abbiamo sbagliato, cosa si poteva fare. Io faccio il confronto con la Germania. La classe politica tedesca ha commesso delle infamie di gran lunga superiori a quelle degli altri paesi, però la Germania ha mostrato in certi momenti una grande capacità di pensare se stessa, il proprio passato. I tedeschi che io conosco mi raccontano che loro sono usciti dal nazismo, dal nazismo della loro famiglia se non quello personale, con una ricerca storica fin dalla prima guerra mondiale, fin dagli inizi del Novecento, chiedendosi cosa era successo e perché le cose erano successe in un certo modo e non in un altro. Di lì arrivano a spiegare tutto.In Italia questo non è possibile. L’Italia si è macchiata di infamie terribili e le abbiamo dimenticate. E le abbiamo dimenticate tutti, chi le ha fatte e chi le ha subite. La destra e la sinistra. Non c’è la minima prevalenza dell’uno o dell’altro. Ma il non avere riconosciuto che abbiamo ammazzato i contadini etiopi con i gas, il fatto che abbiamo commesso le atrocità che abbiamo commesso nei Balcani è un fatto che è stato estremamente dannoso. Le stesse partenze degli italiani dalla Iugoslavia, partenze molto dolorose, le abbiamo ignorate per non disturbare troppo certi eventi, che erano necessari. Abbiamo semplificato tutte le cose, ma questo ha profondamente danneggiato il nostro giudizio sul passato e quindi, a mio avviso, anche il presente, la capacità di comprendere il presente…Continuo a pensarci negli ultimi periodi della mia vita, al prezzo che paghiamo per non essere stati sinceri con noi stessi..........Però io, come dico, non mi sento di vantare delle speranze ragionevoli. Sto pensando a me stesso, e a come sarebbe forse possibile uscirne sostituendo il “forse” all’idea del “giusto o sbagliato”, e chiedendo di guardare prima di tutto a noi stessi e, contemporaneamente, di guardare negli occhi gli avversari per capire cosa c’è dietro. Ci sarà pur qualcosa che abbiamo dimenticato e che abbiamo ignorato.
Ripenso molto agli sbagli fatti. Alcune cose erano certamente giuste. Quando abbiamo legato la nostra repubblica all’antifascismo credo che abbiamo fatto bene. Però lì c’è stato un errore di fondo. Con la resistenza, con il nostro nordismo combattivo, noi abbiamo fatto passare che l’Italia fosse stata antifascista. L’Italia non era stata antifascista. E non era nemmeno stata fascista nel senso dell’adesione. Era stata fascista nel senso conformista della parola. Si era fascisti perché si era conformisti, cioè si seguiva un modello, si voleva essere come gli altri. Ma quando abbiamo fatto il referendum costituzionale del 1946 e la monarchia ha avuto un forte successo, sia pur minoritario, noi l’abbiamo scambiato per una vittoria della monarchia. Non era una vittoria della monarchia, era una vittoria del conformismo di destra. Lo stesso che, in fondo, aveva dominato anche il fascismo, sconfiggendo perfino il radicalismo fascista. Lì noi non abbiamo avvertito che questa destra, questo conformismo, era dentro di noi. Questo rifiuto di riconoscere dei limiti, questo dar sempre la colpa agli altri per qualunque insuccesso, ha nociuto moltissimo......

Quando tu dici che dobbiamo guardare in faccia il berlusconismo per capire anche noi stessi, lo dici anche in positivo? E’ possibile che il berlusconismo, o anche la Lega, abbiano rappresentato esigenze giuste declinate poi in un modo ingiusto?

.....Quando la Lega, e in parte anche Forza Italia, parlano oggi del problema nordista, lo fanno ancora in termini clientelari, ma dietro la loro denuncia vi è qualcos’altro, vi è una critica storica, la quale va però probabilmente colta.

In senso federalista intendi?

In senso federalista, certo. Che non vuol dire in senso, come dire, naturalisticamente egualitario. Io non sono un egualitarista, anche se lo sono stato nella mia giovinezza. Ma la ricerca di un federalismo, cioè del diritto di usare uno spazio, del diritto di muoversi, del diritto di pensare a se stessi come un elemento attivo, la considero una cosa ineluttabile, e che noi non abbiamo ancora mai affrontato in modo convinto. Salvo probabilmente con Cattaneo, in parte più avanti con Silvio Trentin, questo problema di un federalismo vero, maturo, non astrattamente egualitario, noi non lo abbiamo mai affrontato in termini reali. E in fondo nella Lega, nel suo nordismo come nella mancata critica reale del nordismo, sta anche qualcosa di vero e di falso, che noi non abbiamo analizzato ancora fino in fondo.

Hai citato la parola “socialismo”... Ora non c’è anche il rischio di fare tabula rasa di un passato che potrebbe invece fornirci stimoli importanti?

Reinventare il socialismo… Io ho una ripugnanza organica a ripensare il passato nei termini della memoria, della fissità della memoria. Saper ripensare al passato non per riprodurre, ma per pensare nei termini di oggi, questo sì. Allora se io ripenso a un passato vivo il mio ricordo si sposta fatalmente su un elemento importante che è l’autonomia, l’idea, cioè, di un radicalismo che consiste non nell’anticipare dei fatti pensando che saranno realizzati dagli altri, ma nel partecipare, nell’essere soggetti attivi della trasformazione.
Io penso a una trasformazione della società solo se sento di poterne far parte. Questa è la forma che io penso possibile come modello del futuro, un radicalismo che non è l’anticipazione dei fatti ad opera di altri, ma è l’essere presenti, attivi nella trasformazione. Non so se questo è chiaro…

Sei affezionato alla parola autonomia...

Beh, è quella che ha mosso la mia giovinezza. La critica del vecchio liberalismo, quando ero giovane, veniva fatta in nome dell’autonomia. La democrazia liberale, con le sue istituzioni, alla quale io credevo fermamente, la sentivo come un’imposizione, come qualcosa che non era partecipata. L’autonomia voleva dire la partecipazione alla trasformazione, voleva dire voler cambiare la società, voler creare spazio a chi non ce l’ha, dare parola a chi non ce l’ha, ma standoci dentro, senza aspettare che questo venga risolto da qualcun altro. Quindi l’autonomia era anche la critica al sistema comunista, che ne era la negazione. Era, insieme, una critica al liberalismo classico e anche al comunismo.

Ma su quest’idea dell’autonomia mi sembra che a sinistra abbiamo ancora dei grossi problemi…

No, non ci siamo. Non ci siamo affatto. E quando stavo dicendo che sono vecchio mi rendo conto che sto cercando delle cose che ancora non ci sono. Comprendi? Cerco nel passato qualcosa che possa darmi respiro oggi, perché sento che oggi questo non c’è.
Non lo so... Pensiamo ai cattolici. Sentiamo tutto il peso oggi della rigidità di questo linguaggio, di queste prescrizioni così prive di spiritualità religiosa, sentiamo acutamente l’astrattezza del cattolicesimo di adesso. Però al suo interno restano ancora degli elementi spirituali che lo hanno mosso… Io credo di sì.
Recentemente un nostro comune amico, Pino Ferraris, ha scritto qualcosa sui preti operai. Ed è arrivato alla conclusione che i preti operai, che furono un’esperienza francese nata nella guerra e nel trasferimento forzato del lavoro francese ad opera dei tedeschi, finiscono non perché il cardinal Pizzardo abbia deciso che bisognava farla finita, ma semplicemente perché una volta che sono finite le fabbriche sono andati via anche i preti operai, che erano un fenomeno naturalmente legato al lavoro umano. I preti operai erano una manifestazione spontanea, spirituale del lavoro terreno, del lavoro umano.
È una scoperta importante questa, perché ci ricorda come certi valori spirituali assumono un loro significato solo quando se ne rivela l’umanità.

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