domenica 20 giugno 2010

LA GUERRIGLIA DEI FIORI.




di Giuliano Di Caro da La Repubblica delle donne n. 617

Se le guerriglie fossero tutte così, non ci sarebbero abbastanza cannoni da riempire di fiori.Eppure si chiama Guerrilla Gardening la resistenza estrema contro ogni forma di degrado urbano. Il meccanismo è semplice a dirsi quanto complicato da realizzare: appropriarsi degli spazi pubblici abbandonati per creare piccoli giardini, piantarealberelli, fiori, qualunque dono della natura avvilito dal cemento e dall’incuria degli uomini. Letteralmente, si tratta di prendersi la terra - da cui il termine landgrab,usato oltreoceano - senza chiedere il permesso a nessuno, politici o poliziotti. Bastano vanghe, secchi, amore per il verde, un po’ di altruismo e la convinzione che per cambiare la propria città è sufficiente rimboccarsi le maniche e sporcarsi le dita.Alzi la mano chi, all’uscita da scuola o dall’ufficio, non ha mai avuto l’istinto di rendere più bello il marciapiede crepato e odioso su cui cammina ogni mattina, o l’orribile pilone di cemento a due passi da casa.

Ma chi sognerebbe di andare a faticare gratis? Qualcuno c’è se anche in Italia, non solo nei civilissimi Stati nordici o nella New York dove il critical gardening è nato negli anni Settanta, sono parecchi quelli che si uniscono a questa battaglia pacifica. A Milano, Bologna, Torino. Ma anche in Sardegna, a Firenze, e a Roma. Gruppi più o meno formali di uomini e donne che investono un po’ del loro tempo liberoper un ideale pratico e quotidiano. Non confondete spirito battagliero e azioni radicali a ogni costo. Questa forma di ecologismo estremo non sconfina mai nella violenza. Certo, se c’è la polizia in giro, si lavora di notte o da un’altra parte. D’altronde lo sosteneva anche il maestro di guerriglie - quelle vere – Che Guevara: «La rivoluzione non è una mela che cade da sola quando è matura. Devi farla cadere». O magari piantarne l’albero. A sentire i guerriglieri del verde nostrani, il semplice atto di piazzare dei fiori o un arbusto è già di per sé una piccola rivoluzione, senza caricarlo dinebulose complicazioni ideologiche. «Certe volte alcuni agenti della polizia locale si sono avvicinate per farci i complimenti, altro che fermarci!», racconta Stefano Massimello, l’iniziatore del gruppo milanese Landgrab, tra i più attivi “acchiappaterra” della città. Milano e la sua periferia sono il terreno d’azione di parecchi gruppi simili, più o meno in buoni rapporti, talvolta in disaccordo sulla strategia o sulle modalità di coinvolgimento delle persone. E tuttavia è la politica a incagliarsi nelle beghe del reale, non questi ragazzi ventenni o trentenni che fanno i giardinieri professionisti, studiano agraria o escono dagli uffici della Milano della finanza per alzare l’indice del verde cittadino. Massimello e le sue piante sono oggi - ma domani chissà - ospitati dalla Stecca Temporanea, quartiere Isola di Milano, teatro di megaprogetti di rinnovamento e di polemiche infinite tra palazzinari e comitati di irriducibili. L’Ada, l’Associazione delle associazioni, si è trasferita in questo vicolo a due passi dal cantiere di una megatorre residenziale, che si è mangiato i giardinetti di quartiere.

Qualche mese fa vedevi i due Stefano di Landgrab - l’altro di cognome fa Calabrese e allo studio della terra all’università unisce un sano piacere per il contatto fisico con fiori e piante – lavorare nei giardini insieme a una quindicina di guerriglieri occasionali. Un banchetto improvvisato con tè e vino. Atmosfera rilassata e gioviale. Tutti a curare “il serpentone”, l’aiuola a forma di S che per settimane hanno spostato di continuo, appena un passo più in là dell’incombente murodei lavori in corso. La guerriglia va insomma combattuta,letteralmente, zolla su zolla. Perché «Milano, più di qualunque altra città in Italia, è il simbolo del neocolonialismo architettonico e urbano», argomenta una mite guerrigliera in salopette di jeans.

Colpisce, di questi ragazzi, che non si atteggiano a sognatori visionari. Stefano C. tira fuori un album e te lo mostra con la stessa naturalezza di un amico con le foto delle vacanze. Invece dentro trovi gli scatti dell’opera di cui va più fiero, il “Transgarden” in via Restelli. «Il primo giorno di lavori eravamo con i ragazzi del gruppo antagonista Critical mass, bambini insieme ai papà, tutti allegramente in bici». Di aneddoti ne hanno da vendere: il proprietario del parcheggio al coperto che fornisce l’acqua per le aiuole, la vecchietta che gioca a fare l’intransigente vedetta, l’idea di piazzare qualche piantina di pomodori vicino a un cantiere per attrarre gli operai, che sono diventati quelli che annaffiano ogni giorno in pausa pranzo. «Il bello è che tutte le volte si crea una specie di minieventospontaneo», spiegano i due. Qual è l’identikit dei giardinieri critici italiani? Secondo Michela Pasquali, architetto del paesaggio
e autrice di Loisaida, sui community gardens newyorkesi del Lower East Side, «hanno tra i venti e i trentacinque anni, studiano o lavorano negli ambiti più vari, formano gruppetti piccoli e ancora un po’ isolati tra loro e usano il web per il networking, la sensibilizzazione e il reclutamento». Ne ha conosciuti molti alle presentazioni del suo libro, incuriositi e attratti dalla possibilità di incontrare altri come loro. E di sapere come funzionano le cose all’estero, dove il movimento è più maturo e organizzato. «Penso al gruppo Atelier Le Balto, francesi che vivono a Berlino e girano l’Europa diffondendo un modello prezioso anche per l’Italia: avviare piccoli spazi verdi da affidare poi agli abitanti».

In Italia sono in tanti a lavorare, ognuno a modo suo, per un cambio di mentalità nel rapporto tra privati, pubblico e spazio, all’insegna di quella ecologia umanista imbastita di giardini spontanei e spazi vissuti di cui parla Gilles Clément, garden designer, entomologo e scrittore. Il retroterra concettuale e pratico cresce settimana dopo settimana: dalle tante iniziative di plant crossing - baratto di piantine sul modello dello scambio di libri usati – alla nascita di riviste, blog, associazioni, centri sociali, fino all’ideazione di fantasiosi progetti a cavallo tra ecologismo, architettura del paesaggio e arte. A Roma un manipolo di architetti, grafici e storici dell’arte ha creato nel tempo libero il gruppo 4 Cantoni. Hanno cominciato, quasi per scherzo, vincendo il concorso internazionale Ortus Artis per la progettazione, nella Certosa di Padula, provincia di Salerno, di un giardino temporaneo: un canovaccio più che un piano rigido,arricchito da una macchinetta anni Settanta che distribuisce semi anziché caramelle. «In due anni abbiamo realizzato svariati allestimenti in giro per l’Italia», racconta Barbara Annunziata. «Per la notte bianca a Roma, per esempio, ma anche isole verdi a Biella, Milano e Palermo». In Sicilia, con i coraggiosi ragazzi di Addiopizzo, si sono inventati l’allestimento “Piantala con l’omertà”. «Un’esperienza emozionante, con i bambini che spargevano semi nella piazza dove da piccoli Falcone e Borsellino giocavano con i loro futuri assassini».L’artista cremonese Ettore Favini con il verde ha giocatospesso, a Milano e alla Falchera a Torino. I pacchettini di semi dei suoi distributori hanno un indirizzo e-mail, con preghiera di segnalare dove sono stati piantati: «Così da creare una mappatura dell’urban foresting cittadino».

A Bologna, racconta Luca Comba, il gruppetto informale Crepe Urbane pubblica una rivista dedicata al tema della riqualificazione cittadina e partecipa al progetto comunale di rinnovamento di una zona industriale della città. «Avevamo realizzato pure un giardinetto abusivo, ma le cooperative addette alla manutenzione del verde l’hannofalciato via, ossessionate come sono dal rispetto dei criteri fissati nell’appalto comunale», dicono. Si lavora anche nelle periferie. Al Comune di Bresso, Stefano C. lo conoscono tutti, tante sono le scartoffie che ha compilato, una selva di autorizzazioni per piantare due alberelli. A Segrate l’educatore Francesco Giorgi lavora con i bambini delle scuole, ben contenti di imparare la rotazione agricola con le mani nella terra fresca. La società civile italiana lancia insomma segnali interessanti. Il modello di guerrilla gardening che arriva dall’estero, specie dall’Inghilterra, da noi viene declinato in forme addolcite e naïf. I seguaci del guru britannico Richard Reynolds organizzano i loro blitz notturni manco fossero dei paramilitari: ognuno dei quattromila e più guerriglieri armati di seed bombs, di bombe di semi, ha un nickname seguito da un numero progressivo.

L’Italia invece è costellata di esperienze meno irreggimentate,magari anche senza nome o organizzazioni formali. «Due anni fa ho deciso che era ora di smetterla con quel prato vicino a casa pieno di mattoni e piastrelle che scaricavano di continuo», racconta Paolo Denotti di Quartu Sant’Elena, provincia di Cagliari. «Sa che ho fatto? L’ho pulito, ho aggiunto un lampioncino pagato di tasca mia e ho piantato rose, margherite e girasoli. È del Comune, ma l’ho ripulito lo stesso e un bel giorno i proprietari hanno bussato alla mia porta per dirmi “Faccia pure, che ci piace”». Molti compaesani del volenteroso signore hanno fatto lo stesso, in preda a un contagio verde spontaneo. Di fronte a decine di giardinetti curati dalla gente, il Comune si è accodato e ha organizzato unpiano di cura del verde pubblico affidato ai concittadini.

Collaborazione d’altronde è la parola chiave di questa battaglia di civiltà dalle tante teste. I critical gardeners italiani sono spesso lontani dalla logica apertamente antagonista di Reynolds e più vicini alle posizioni del canadese David Tracey, autore di un celebre Manualfesto. Ovvero perché rifiutare il supporto delle istituzioni, se mai capissero finalmente quanto è importante ridisegnare con pastelli verdi lo spazio dove spendiamo la nostra vita? Te lo racconta anche Massimello, uno che razzola più di quanto predica. Prima di avviare il gruppo milanese, il gardener professionista l’ha fatto per il Comune di New York City, dove esiste una tradizione trentennale di community gardens, spazi verdi curati da cittadini volenterosi con il supporto dell’amministrazione locale. «Sarebbe ottimo se i Comuni aiutassero economicamente il mio e i tanti altri gruppi sparsi per l’Italia, invece di spendere soldi a vanvera per aiuole destinate a durare un mesetto o due: noi invece ragioniamo in termini di piccole aree verdi parzialmente autosufficienti, capaci di resistere nel tempo con il minor sforzo possibile». La politica arriva, nel migliore dei casi, buona ultima. «I privati ci danno spesso una mano», racconta Stefano, «ci permettono di usare l’acqua di casa loro, regalano qualche piantina, o vengono solo a curiosare. È così che l’aiuola diventa anche un po’ loro».

Alcune volte pure troppo. Nora Bertolotti, che nella vita si occupa di arte contemporanea, due anni fa è rimasta affascinata dalla location decadente e postindustriale di viale Ortles, zona Ripamonti a Milano. Insieme con un’amica si è messa a scavare per dare nuova vita a quelle ampie aiuole rinsecchite. «Ma nel giro di poco tempo, delle venticinque piantine che avevamo portato ne era rimasta una. Tutte rubate o distrutte dalle macchine che parcheggiavano per caricare le prostitute, presenza fissa da quelle parti. Così ho capito che il guerrilla gardening funziona solo dove la vecchietta si affaccia al balcone e i bambini vanno a scuola: dove c’è quotidianità, e quindi protezione». L’azione successiva, con l’associazione Xyz, l’ha realizzata a Niguarda, un’area di movimenti giovanili e case popolari.E ha funzionato benissimo. «Eravamo in cinque, facevamo i turni in base alle vacanze di ognuno per decidere chi avrebbe innaffiato le piante. E stavolta, per fortuna, niente ruberie notturne!». Il guerrilla gardening, con tutte le difficoltà del caso e il poco tempo a disposizione, vive di questo: passione e invenzione. Date un’occhiata alla bici lunga tre metr che all’Isola si sono costruiti Massimello e i suoi “coinquilini” della Ciclofficina. Con il suo vano gigante per gli attrezzi e i sacchi di terra piazzato tra il manubrio e la ruota davanti, sembra che sia scappata da un quadro di Escher, o da un film di Tati.


Per saperne di più

Nessun commento:

Posta un commento